martedì 3 agosto 2021

Brevi considerazioni sulla «Rappresentazione di Anima e Corpo» di Agostino Manni su musica di Emilio de’ Cavalieri

 


San Filippo Neri (1515 - 1595)
San Filippo Neri (1515 – 1595) frequentò sin da fanciullo le Confraternite fiorentine, seguì poi il Savonarola in San Marco, partecipò alle pie unioni, ove la gioventù si raccoglieva, onde ricevere quell’educazione religiosa, che li avrebbe tenuti lontano dalle tentacolari passioni del mondo.

Nel 1534, si trasferì a Roma, e, seguendo gl’insegnamenti fiorentini, fondò gli oratori, legando l’esperienza musicale, poiché conosceva il grado d’influenza sull’uomo dell’arte; chiamò a raccolta i miglior ingegni musicali romani, suggerendo loro il metodo fiorentino quale punto di partenza, per procedere verso più elevate e raffinate forme d’arte.

Giovanni Giovenale Ancina (1545 - 1604)
La lauda, i «trasvestimenti1» ad opera soprattutto di Giovanni Ancina, stretto collaboratore del Neri, erano usati a Firenze fino alla metà del XV secolo, al fine di conferire maggiore varietà ai canti eseguiti dalle Confraternite ed a quelli delle sacre rappresentazioni.

Negli oratori filippini, seguendo i criteri controriformistici, si cercò così d’avvicinare i giovani alla Chiesa anche accettando degli onesti divertimenti, in cui alla musica era riservata sempre gran parte. La lauda fu allora rielaborata nei testi da poeti zelanti, anche se non dotati di grande valore artistico; si travestì il profano in sacro, preoccupandosi d’aggiungere una gran varietà, nell’arco della meditazione, dell’esortazione, nella parte metrica. La parte musicale risultò preponderante su quella poetica: omoritmica, con l’assegnazione della melodia alla parte acuta e relegando le altri parti a strumenti, annunciando così la monodia accompagnata. Il mondo filippino si trova così ben rappresentato nella sua interiorità e la lauda da narrativa si trasforma in drammatica; tenta la forma dialogica e giunge, nel suo massimo grado evolutivo, al nucleo dell’oratorio.

Giacomo Carissimi (1605 - 1674)
La rappresentazione, che ebbe luogo dal XVII secolo presso Santa Maria in Vallicella, non si presenta quale precedente dell’oratorio, né un’evoluzione della laude, poiché si allontana dal mondo privo di simboli, che il Carissimi avrebbe animato nelle sue grandi composizioni oratoriali.

Essa originò dai drammi sacri fiorentini, che, seppur ostacolati dalla Chiesa, perché si presentavano in una miscela di sacro e profano, prendevano vita sui palchi dei conventi e delle confraternite, divertendo un modesto pubblico di religiosi e collegiali.

P. Agostino Manni dettò l’ampliamento della lauda filippina, formandone la stesura poetica della rappresentazione, e contando da un affetto al suo contrario, esplicando i criteri camerateschi fiorentini, i quali si sarebbero ispirati anche alla vita musicale della città, alle forme popolari, elaborando così la più grande rivoluzione musicale della storia. Tralasciata l’influenza greca, il Manni seguì l’evoluzione spontanea e schietta della musica italiana rinascimentale, attraverso il ritorno all’antichità classica, agl’ideali vagheggiati negli studi umanistici. Lo studio dei poeti e dei musici greci ben s’accordò con l’interiorità palpitante delle forme popolari, compresa e rielaborata dal mondo intellettuale, piegata all’essenza dei nuovi ideali, in una suprema riunione di scienza, cultura, arte e sentimento, che avrebbero fornito per circa tre secoli rinnovate espressioni nel solco dell’originaria tradizione.

Nel libretto della «Rappresentazione di Anima e Corpo», i contatti con l’antica rappresentazione fiorentina sono evidenti. Nel Proemio, due giovani, Avveduto e Prudenzio, recitano innanzi l’inizio della rappresentazione, introducendo una soluzione già presente verso la metà del Quattrocento, come nella frottola2 introduttiva («Anton? Chi chiama?») aggiunta all’«Abramo ed Agar», uno dei più celebri dramma sacri del XV secolo.

Nel Proemio s’insiste sulla vanità della vita, sulla caducità del male che si nasconde sotto le false belle apparenze, del cammino dell’uomo verso l’unico bene: Dio, finalità espresse nei prologhi e nelle rappresentazioni fiorentine. Gli undici simbolici Personaggi agiscono come esseri viventi, secondo il dettato cameratesco in uno scenario, che prevede il Cielo ed, in basso, la bocca dell’inferno. Mentre le figure allegoriche, le riflessioni, la parte meditativa del testo ricorda l’ambiente della lauda filippina, la varietà del metro poetico conduce alle dotte aspirazioni dell’epoca.

Lo stile darà vita al recitar cantando, forma nobiliare della linea melodica, per la quale – soprattutto a Firenze – vi era particolare predilezione in un ambito di varietà, che prevedeva l’uso dei cori e le tante variazioni, cui era sottoposta la melodia, accompagnata da strumenti nascosti dietro le scene.

Ai cantanti era richiesta la capacità di modulare il passaggio dal piano al forte, la perfetta pronuncia delle parole, perché muovessero il pubblico attraverso l’affetto.

La cura della messa in scena avrebbe contribuito alla sontuosità dello spettacolo. Così, la rappresentazione romana maturò ogni aspetto propugnato dai conventi fiorentini, ancor prima dei saggi melodrammatici del Peri e del Caccini. 

(1) adattamento di canti profani a testi spirituali,

(2) canzone popolare italiana, a tre o quattro voci spesso accompagnata da uno strumento musicale, del XV e del XVI secolo.

 

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