domenica 17 ottobre 2021

Lettera di Giacomo Leopardi a Pietro Giordani del 30 aprile 1817

 


A Pietro Giordani

Recanati, 30 aprile 1817

Oh quante volte, carissimo e desideratissimo signor Giordani mio, ho supplicato il cielo che mi facesse trovare un uomo di cuore, d’ingegno e di dottrina straordinario, il quale trovato potessi pregare che si degnasse di concedermi l’amicizia sua! E in verità credeva che non sarei stato esaudito, perché queste tre cose, tanto rare a trovarsi ciascuna da sé, appena stimava possibile che fossero tutte insieme. Oh sia benedetto Iddio (e con pieno spargimento di cuore io dico) che mi ha conceduto quello che domandava, e fatto conoscer l’error mio! E però sia stretta, la prego, fin da ora tra noi interissima confidenza, rispettosa per altro in me, come si conviene a minore, e liberissima in lei. Ella mi raccomanda la temperanza nello studio con tanto calore e come cosa che le prema tanto, che io vorrei poterle mostrare il cuor mio perché vedesse gli affetti miei che v’ha destati la lettura delle sue parole; i quali, se il cuore non muta forma e materia, non periranno mai, certo non mai. E per rispondere come posso a tanta amorevolezza, dirolle che veramente la mia complessione non è debole ma debolissima, e non istarò a negarle che ella si sia un po’ risentita delle fatiche che le ho fatto portare per sei anni. Ora però ho le moderate assalissimo; non istudio più di sei ore il giorno; spessissimo meno; non iscrivo quasi niente; fo la mia lettura regolata dei Classici delle tre lingue in volumi di piccola forma, che si portano in mano agevolmente, sì che studio quasi sempre all’uso dei Peripatetici, e, quod maximum dictu est, sopporto spesso per molte e molte ore l’orribile supplizio di stare colle mani alla cintola. […]

Amerò ancor io la mia patria quando ne sarò lontano; ora dico di odiarla perché vi sono dentro ché finalmente questa povera città non è rea d’altro che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori. Del luogo, dove s’è passata l’infanzia, è bellissima e dolcissima cosa il ricordarsi. E’ un bellissimo dire: qui sei nato, qui ti vuole la providenza. Dite a un malato: se te cerchi di guarire, la pigli colla providenza; dite a un povero: e tu cerchi d’avvantaggiarti, gai testa alla providenza; dite a un turco: non ti salti in capo di pigliare il battesimo, ché la providenza t’ha fatto turco. Questa massima è sorella carnale del fatalismo. «La qui tu sei dei primi; in città più grande saresti dei quarti e dei quinti». Questa mi par superbia vilissima e indegnissima d’animo grande. Colla virtù e coll’ingegno si vuol primeggiare, e questi chi negherà che nelle città grandi risplendano infinitamente più che nelle piccole? Voler primeggiare colle fortune, e contentarsi di far senza infiniti piaceri, non dirò del corpo, del quale non mi preme, ma dell’animo, per amore di comando e per non istare a manca, questa mi par cosa da tempi barbari e da farmi ruggire, e inferocire. «Ma qui puoi essere utile più che altrove». La prima cosa, a me non va di dar la vita per questi pochissimi, né di rinunziare a tutto per vivere e morire a pro loro in una tana. Non credo che la natura m’abbia fatto per questo, né che la virtù voglia da me un sacrificio tanto spaventoso. In secondo luogo, ma che crede ella mai? Che la Marca e il Mezzogiorno dello Stato Romano sia come la Romagna e il Settentrione d’Italia? Costì il nome di letteratura si sente spessissimo; costì giornali, accademie, conversazioni, librai in grandissimo numero. I signori leggono un poco, l’ignoranza è nel volgo, il quale se no, non sarebbe più volgo; ma moltissimi s’ingegnano di studiare, moltissimi si credono poeti, filosofi, che so io. Sono tutt’altro; ma pure vorrebbero esserlo. Quasi tutti si tengono buoni a dar giudizio sopra le cose di letteratura. Le matte sentenze che proferiscono svegliano l’emulazione, fanno disputare, parlare, ridere sopra gli studi. Un grand’ingegno si fa largo. V’è chi l’ammira e lo stima, v’è chi l’invidia e vorrebbe deprimerlo; v’è una turba che dà loco e conosce di darlo. Costì il promuovere la letteratura è opera utile, il regnare coll’ingegno è scopo di bella ambizione. Qui, amabilissimo signore mio, tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità. Si meravigliano i forestieri di questo silenzio, di questo sonno universale. Letteratura è vocabolo inudito. I nomi del Parini, dell’Alfieri, del Monti, e del Tasso e dell’Ariosto e di tutti gli altri han bisogno di commento. Non c’è uno che si curi d’esser qualcosa; non c’è uno a cui il nome d’ignorante paia strano. Se lo danno da loro sinceramente, e sanno di dire il vero. Crede ella che un grande ingegno qui sarebbe apprezzato? Come la gemma nel letamaio. Ella ha detto benissimo (e saprò ben dove) che gli studi come più sono rari meno si stimano, perché meno se ne conosce il valore. Così appuntino accade in Recanati, e in queste provincie, dove l’ingegno non si conta fra i doni della natura. Io non sono certo una gran cosa; ma tuttavia ho qualche amico in Milano, fo venire i giornali, ordino libro, fo stampare qualche cosa mia; tutto questo non ha fatto mai altro Recanatese a recincto condito. Parerebbe che molti dovessero essermi intorno, domandarmi i giornali, voler leggere le mie coserelle, chiedermi notizie dei letterati dell’età nostra. Per appunto: i giornali, come sono stati letti nella mia famiglia, vanno a dormire nelle scansie. Delle mie cose nessuno di cura, e questo va bene: degli altri libri molto meno; anzi le dirò senza superbia che la libreria nostra non ha eguale nella provincia, e due sole inferiori. Sulla porta ci sta scritto ch’ella è fatta anche per li cittadini, e sarebbe aperta a tutti. Or quanti pensa ella che la frequentino? Nessuno mai. Oh veda ella se questo è terreno da seminarci! Ma e gli studi le pare che qui possano far bene? Non dirò che con tutta la libreria io manco spessissimo di libri, non pure che mi piacerebbe di leggere, ma che mi sarebbero necessari; e però ella non si meravigli se talvolta si accorgerà che io sia senza qualche classico. Se si vuol leggere in libro che non si ha, se si vuol vederlo anche per un solo momento, bisogna procacciarselo col suo danaro, farlo venire di lontano, senza potere scegliere né conoscere prima di comperare, con mille difficoltà per via. Qui niun altro fa venire libri, non si può torre in prestito, non si può andare da un libraio, pigliare un libro, vedere quello che fa al caso e posarlo; sì che la spesa non è divisa, ma è tutta sopra noi soli. Si spende continuamente in libri, ma la spesa è infinita, l’impresa di procacciarsi tutto è disperata. Ma quel non avere un letterato con cui trattenersi, quel serbarsi tutti i pensieri per sé, quel non potere sventolare e dibattere le proprie opinioni, far pompa innocente de’ propri studi, chiedere aiuto e consiglio, pigliar coraggio in tante ore e giorni di sfinimento e svogliatezza, le par che sia un bel sollazzo? Io da principio aveva pieno il capo delle massime moderne, disprezzava, anzi calpestava, lo studio della lingua nostra; tutti i miei scrittacci originali erano traduzioni dal francese; disprezzava Omero, Dante, tutti i classici; non volea leggerli, mi diguazzava nella lettura che ora detesto: chi mi ha fatto mutar tuono? La grazia di Dio; ma niun uomo certamente. Chi m’ha fatto strada a imparare le lingue che m’erano necessarie? La grazia di Dio. Chi m’assicura ch’io non ci pigli un granchio a ogni tratto? Nessuno. Ma pognamo che tutto questo sia nulla, che cosa è in Recanati di bello? Che l’uomo si curi di vedere o d’imparare? Niente. Ora Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle che ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono, che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere; la terra è piena di meraviglie; ed io di dieciott’anni potrò dire: In questa caverna vivrò, e morrò dove son nato? Le pare che questi desideri si possano frenare? Che siamo ingiusti, soverchi, sterminati? Che sia pazzia il non contentarsi di non veder nulla, il non contentarsi di Recanati? L’aria di questa città l’è stato mal detto che sia salubre. E’ mutabilissima, umida, salmastra, crudele ai nervi e per la sua sottigliezza niente buona a certe complessioni. A tutto questo aggiunga l’ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s’alimenta e senza studio s’accresce. So ben io qual è, e l’ho provata, ma ora non la provo più, quella dolce malinconia che partorisce le belle cose, più dolce dell’allegria; la quale, se m’è permesso di dir così, è come il crepuscolo, dove questa è notte fittissima e orribile, è veleno, com’ella dice, che distrugge le forze del corpo e dello spirito. Ora come andarne libero non facendo altro che pensare, e vivendo di pensieri senza una distrazione al mondo? E come fare che cessi l’effetto se dura la causa? Che parla ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è lo studio; unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia. So che la noia può farmi manco male che la fatica, e però spesso mi piglio la noia, ma questa mi cresce, com’è naturale, la malinconia; e quand’io ho avuto la disgrazia di conversare con questa gente, che succede di raro, torno pieno di tristissimi pensieri agli studi miei, o mi vo covando in mente e ruminando quella nerissima materia. Non m’è possibile rimediare a questo, né fare che la mia salute debolissima non si rovini, senza uscire di un luogo che ha dato origine al male, e lo fomenta e l’accresce ogni dì più, e a chi pensa non concede nessun ricreamento. Veggo ben io che per poter continuare gli studi bisogna interromperli tratto tratto, e darsi un poco a quelle cose che chiamano mondane: ma per far questo io voglio un mondo che m’alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa), ed abbia tanta forza da farmi dimenticare per qualche momento quello che soprattutto mi sta a cuore; non un mondo che mi faccia dare indietro a prima giunta, e mi sconvolga lo stomaco e mi muova la rabbia e m’attristi e mi forzi di ricorrere, per consolarmi, a quello da cui volea fuggire. […]

Il povero marchese Benedetto Mosca (il qual so ch’ella amava), cugino carnale di mio padre, venne un giorno a fare una visita di sfuggita ai suoi parenti, e quell’unica volta noi due parlammo insieme; […] disse dunque di lei questo solo: che conosceva, […] avea avuto maestro il Giordani, il quale, soggiunse (ed io ripeto le sue stesse parole, e la sua modestia sel soffra per questa volta) è adesso il primo scrittore d’Italia. O pensi ella se i primi scrittori d’Italia si conoscevano in Recanati! Io avea allora 15 anni, e stava dietro a studi grossi, grammatiche, dizionari greci, ebraici, e cose simili, tediose ma necessarie. Non vi badai proprio niente. Ma nel cominciare dall’anno passato, visto il suo nome appié  del manifesto della Biblioteca italiana, mi ricordai quelle parole, e avuti i volumetti della Biblioteca seppi quali fossero gli articoli suoi prima per conghiettura, e poi con certezza quanto a uno o due, e questo mi bastò per ravvisarli poi tutti. […] essi diedero stabilità e forza alla mia conversione, che era appunto sul cominciare; che, gustato quel cibo, le altre cose moderne che prima mi pareano squisite, mi parvero schifissime; che attendea la Biblioteca con infinito desiderio, e ricevutala la leggea con avidità da affamato; che avrò letti e riletti i suoi articoli una diecina di volte; […] io pensava di procacciarmi qualche sua cosa, quando ricevetti da lei veramente graditissime le sue prose tutte d’oro. […] Ella veda quanto io abbia bisogno ch’ella mi faccia veramente da maestro; e compatendo alla debolezza e piccolezza de’ pensieri miei si voglia impacciare di provvederci. […] Non mi concede ella di leggere ora Omero, Virgilio, Dante e gli altri sommi? Io non so se potrei astenermene, perché leggendoli provo un diletto da non esprimere con parole. […] Quando io vedo la natura in questi luoghi che veramente sono ameni (unica cosa buona che abbia la mia patria), e in questi tempi spezialmente, mi sento così trasportare fuori di me stesso, che mi parrebbe di far peccato mortale a non curarmene; […] se la natura ti chiama alla poesia, tu abbia  a seguitarla senza curarti d’altro, anzi ho per certissimo ed evidentissimo che la poesia vuole infinito studio e fatica, e che l’arte poetica è tanto profonda che come più si va innanzi più si conosce che la perfezione sta in un luogo al quale da principio né pure si pensava. Solo mi pare che l’arte non debba affogare la natura; e nell’andare per gradi e voler rima esser buon prosatore e poi poeta, mi pare che sia contro la natura, la quale anzi prima ti fa poeta, e poi col raffreddarsi dell’età ti concede la maturità e la posatezza necessaria alla prosa. […] Non credo che si possa citare esempio di vero poeta, il quale non abbia cominciato a poetare da giovanetto; né che molti poeti si possano addurre i quali siano giunti all’eccellenza, anche nella prosa; e in questi pochissimi mi par di vedere che prima sono stati poeti e poi prosatori.

Pietro Giordani (1774 - 1848)

 

Giacomo Leopardi rincorreva la gloria; vivendo in Recanati, non poteva avere contatti cogli uomini illustri del suo tempo come il Monti, il Mai. Inviò una lettera al Giordani, accompagnata da alcuni suoi primi lavori. Nacque una forte amicizia letteraria ed intellettuale oltre che umana, che si sarebbe rinsaldata col tempo. Il Recanatese sembra porsi ai piedi del Maestro, per tanto entusiasmo, che dimostra nel ringraziare il Giordani per la sua attenzione. Giordani lo invita a moderarsi nello studio ed il ringraziamento di Giacomo tocca davvero il cuore del lettore, poiché nelle sue parole s’intravede tutta la solitudine di un giovane cresciuto senza amore genitoriale. Il Poeta assicura l’amico che le ore dedicate allo studio sono assai meno, si astiene dallo scrivere, trascorrendo oziosamente gran parte del tempo. Ribadisce quanto abbia in odio Recanati, paese senza alcun stimolo intellettuale e non accetta doversi rassegnare alla sua dimensione fisica, poiché rassegnarsi significherebbe essere fatalisti. Sicuro che in alcune zone del Nord Italia, la letteratura avrebbe maggior luce ed importanza, mentre in Recanati s’ignorerebbero i nomi più illustri dei nostri letterati. Ribadisce, con maggior forza, che nel suo paese, egli non sia riconosciuto, perché, a causa dell’eccessiva ignoranza, non possa essere riconosciuto quale mirabile e straordinario ingegno letterario. L’intensa attività culturale, la condivisione della biblioteca di famiglia non riscuoterebbero alcun interesse presso i recanatesi, forse punto abituati a non vivere interessi nella lettura.

Leopardi confessa che all’inizio della sua avventura letteraria non riteneva opportuno approfondire i classici, seguendo così la modernità, poi l’intervento della Divina Provvidenza gli mutò il giudizio non certo il vivere a Recanati. Nel suo paese, la noia lo assale, lo «lima», lo «divora», mentre la malinconia generatrice lo ha abbandonato, così Egli è costretto ad abbandonarsi agli studi, unico «divertimento», che sono fonte di tante pene fisiche. Desidererebbe un mondo di luce, «sia pure di luce falsa». Quindi, un ricordo, con cui accarezza il cuore al suo interlocutore; Benedetto Mosca, cugino carnale di Monaldo, si vantò d’esser stato allievo del Giordani, «il primo scrittore d’Italia». Quando Giacomo lesse i suoi articoli sulla Biblioteca italiana, ne trasse giovamento. Ringrazia, altresì, il Giordani per l’invio di certi lavori molti graditi al giovane Poeta. Chiede quindi che sia guidato nel difficile corso degli studi, che vorrebbe consistessero anche nelle letture di Omero, Virgilio, Dante, scrittori inimitabili per il Recanatese. Insiste nel voler applicarsi alla poesia, così come la natura di Recanati gli suggerisce, per poi volgere alla prosa.

 

 

Articoli su Giacomo Leopardi

LA VITA

L’infanzia

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Il traduttore

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La cattività in Recanati

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La fuga da Recanati

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L’arrivo a Roma

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«A Silvia»

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Breve commento a «Il passero solitario»

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Breve commento a «La sera del dì di festa»

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Breve commento a «La vita solitaria»

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Breve commento dell’idillio «Alla luna»

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«Il primo amore»

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Geltrude Cassi Lazzari, il primo grande, sfortunato amore di Giacomo Leopardi

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Giacomo Leopardi a Roma

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Giacomo Leopardi e Pietro Giordani: un’amicizia letteraria

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La donna nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi

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La donna nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi: Paolina Leopardi

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La donna nella vita di Giacomo Leopardi: Paolina Ranieri

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Le donne nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi: Marianna Brighenti

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Le donne nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi: Teresa Carniani Malvezzi

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Pietro Giordani su Giacomo Leopardi in una lettera al Cavaliere Felice Carrone, Marchese di S. Tommaso

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Teresa Fattorini: «Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno».

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