sabato 6 novembre 2021

Farinata degli Uberti nell’analisi di Francesco De Sanctis

 


Farinata, appellativo di Manente degli Uberti, nacque nel 1212 circa a Firenze; fu un capopartito ghibellino, di cui Dante narra nel X Canto dell’Inferno quale eretico.

Farinata degli Uberti (1212 ca - 1264)
Riuscì a sconfiggere il partito guelfo, coll’aiuto di Federico II, il 2 febbraio 1248, propinando ai vinti l’esilio, dal quale tornarono nel gennaio 1251 dopo la rivincita di Figline, che costò allora l’esodo alla parte guelfa presso Siena. Uscito vincitore alla battaglia di Montaperti del 4 settembre 1260, Farinata tornò a Firenze, cacciando, per la seconda volta i Guelfi il 13 ottobre. Sarebbe morto nel 1264.

Farinata fu una delle figure, che maggiormente impressionarono Dante, così come potremmo dedurre già dai primi dell’Inferno, dove il Poeta «incontratosi in un uom insignificante, in Ciacco», chiede dove possa trovare quei personaggi:

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,

Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca

e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,                        

dimmi ove sono e fa ch’io li conosca1;

Celestino V (1215 - 1296)

Farinata, come possiamo notare, è il primo della lista, e ciò dimostrerebbe «la grande ammirazione per questo illustre cittadino. Due cose Dante dispregiava sovranamente: ciò che è fiacco e ciò che è plebeo, papa Celestino e maestro Adamo».

Egli fu un tenace sostenitore che l’uomo dovesse vivere nella Forza, nell’espressione della magnanimità, indispensabile per superare le sofferenze della vita. Farinata «ama la sua parte con tutta l’energia e la possanza dell’anima. […] La forza è inseparabilmente congiunta colle idee, i motivi ed i fini, di cui egli è consapevole e che lo movono all’opera». In ciò si rivelerebbe «la forza d’animo, ciò che Dante chiama magnanimità, […] quella grandezza morale, che oggi chiamiamo tempra o carattere».

Nella figura di papa Celestino, Dante analizza l’assenza di carattere, mentre nel personaggio di Capaneo «è pura forza, è in potenza, non è in atto. In Farinata la forza non è qualche cosa che stia da sé, ma è già divenuto, e la senti vivere nell’energia delle convinzioni e de’ sentimenti e delle azioni. E questo è il carattere, questo è la persona, nella ricchezza delle sue determinazioni, nella libertà de’ suoi movimenti vita e azione».

Dante, mentre intraprende il suo viaggio, probabilmente aveva già nell’immaginazione il Farinata, tantoché, quando giunge nel cerchio degli eretici, chiede dove si trovi il capo ghibellino, non ottenendo risposta, poiché le anime sarebbero intrappolate nei sepolcri. Alla richiesta, se fosse possibile parlare con i dannati, Virgilio risponde:

satisfatto sarai tosto

ed al disio ancor che tu mi taci2.

Farinata degli Uberti nel X Canto dell'Inferno
Lo stesso Virgilio avverte Dante che dalla tomba

Vedi là Farinata, che s'è dritto:

     Dalla cintura in su tutto il vedrai3.

Il Poeta commenta:

ed el s’ergea col petto e con la fronte

com’avesse l’inferno a gran dispitto4.

La sua anima s’innalza «sopra tutto l’inferno», rivelandosi di una grandezza infinita. E Dante, «ammira il cittadino della passata generazione e rimane come annichilito innanzi a tanta straordinaria grandezza. Eccolo lì, innanzi all’uomo che ha desiderato tanto di vedere». Lo fissa: «egli è là, estatico, turbato, e non sa quel che faccia, ed è necessario che Virgilio lo scuota e lo spinga con le mani verso di lui».

A Farinata giunge la lingua tosca, parlata dal Poeta, «la loquela del suo paese, la sua Firenze, le più care memorie gli si affollano nell’anima, e rammorbidiscono la sua fiera natura e danno al suo accento non so che gentile, l’accento della preghiera».

Quindi chiede chi fossero gli avi del Viandante, ed egli confessa, tantoché Farinata capisce che in vita furono acerrimi nemici. Ancora dalla risposta dell’eretico, dedurremmo «la forza che si manifesta nella veemenza della passione, senza moti incomposti o esagerati, senza jattanza, con quella sicurezza che ha l’uomo serio quando parla di sé. Troviamo ora nelle sue parole e lo riconosciamo quale figura sì grande, superiore all’inferno».

Il dialogo è improvvisamente interrotto dall’intervento di Cavalcante; «perché Dante ha interrotto il racconto di Farinata? Perché Farinata si mostra insensibile a tanta pietà? Foscolo scrisse che Guido fosse suo genero, indi la parentela tra il fatto principale e l’episodio». Ma ciò che colpisce è l’imperturbabilità dell’eretico di fronte al racconto di Cavalcante «egli non muta aspetto, non move il collo, non piega sua costa», perché quelle parole non giungono alla sua anima, poiché essa «è tutta in un pensiero unico, rimasole infisso come uno strale».

Scomparso Cavalcante, Farinata ripensa al dialogo serrato, sostenuto col concittadino, quand’egli s’era vantato di aver cacciato da Firenze la parte guelfa, e Dante, di rimando, aveva rintuzzato che, al contrario dei ghibellini, erano stati capaci nel tornare.

«Quest’uomo non pensava che a quel detto di Dante: dalle parole di costui fino alla sua risposta corre un qualche intervallo, riempito da Cavalcante, che è interruzione per il lettore, ma per il magnanimo continuazione dello stesso pensiero, prolungamento dello stesso dolore; un dolore che vuol dominar solo, che non patisce compagnia, […] che lo rende estraneo al foco dell’inferno».

Farinata riprende il discorso laddove lo aveva lasciato: i suoi avi mal compresero l’arte di rientrare in Firenze, dolore per lui incancellabile, ma trascorreranno circa quattro anni (cinquanta fasi lunari) ed anche Dante sarà costretto ad assaporare l’amaro sapore di quell’arte.

Allora il Viandante gli ricorda la battaglia di Montaperti, dove Farinata vinse, colorando di rosso il fiume Arbia. L’eretico sembra improvvisamente smarrito, quando cerca di dividere le colpe di quell’orribile scempio («A ciò non fu’ io sol»), quindi uno scatto di nobile orgoglio, nel proclamarsi difensore della città di Firenze:

Ma fu’ io solo, là dove sofferto

fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,

colui che la difesi a viso aperto5.

Con questi ultimi versi, suggella il ruolo di eroe.

Tratteggiata è la figura epica dell’uomo, pur in assenza di eloquenza e senza sentire il palpito dell’anima:

«E’ l’uomo ancora primitivo e spontaneo nella sua semplicità, che vive tutto di fuori, e non si raccoglie e non si esamina, di una vita interiore sintetica, che attende l’impressione per raggiare

 

 

 (1) Dante, Inferno, Canto VI, vv. 79 – 82

(2) Dante, Inferno, Canto X, vv. 17 – 18

(3) vv. 32 – 33.

(4) vv. 35 – 36.

(5) vv. 91 – 93

FRANCESCO DE SANCTIS. Nuovi saggi critici. Napoli, Ditta Morano & Figlio, 1901; pag. 21 – 50.

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