martedì 5 ottobre 2021

Il viaggio di Enea: l’arrivo a Cartagine

 

Il viaggio dell’Eroe come metafora della vita. Enea in balia del mare (l’istinto indomabile) e per mezzo della sua barca (la ragione), che cerca di compiere l’opera: realizzare se stesso. Ecco l’insegnamento sempre attuale del racconto mitologico, che schiude interpretazioni sempre più avvincenti e per certi versi convincenti sul significato della vita.

Quando in Italia regnava Latino, Troia cadde in mano greca. Enea, allora, rassegnato alla morte della moglie, si caricò sulle spalle il babbo Anchise, assegnando al figlio Ascanio la custodia dei lari ed, accompagnato da molti troiani, prese la via del mare, affrontando molti pericoli.

La famiglia come atto di forza, che lega indissolubilmente i membri dalle generazioni che furono a quelle che condurranno verso il futuro. Anchise è giustamente sulle spalle, poiché la saggezza si conquista attraverso la maturità; Enea copre il carico maggiore, perché, oltreché sopportare il babbo, dovrà insegnare i passi al figlio, Ascanio, nel lungo sentiero della vita. Assai interessante riunire le generazioni, che chiudono una stirpe (i lari) ed i futuri rappresentanti (Ascanio), cosicché passato e futuro, s’incontrano nel presente.

Enea arrivò nel regno di Tracia, dove s’incamminò per un bosco di mirti, pianta dalla simbolica potenza. Staccò un ramo, provocando la fuoriuscita di sangue, che insospettì e stupì l’Eroe. La scena ricorda l’episodio raccontato nel XIII canto dell’Inferno, quando i Viandanti si trovarono nel VII cerchio dedicato ai suicidi, trasformati in piante.

Dante e Virgilio nella selva dei suicidi
Dante, su invito di Virgilio, spezza un ramoscello da uno degli alberi ed esce del sangue nero.

Enea prese un altro ramo, al fine di spezzarlo e nuovamente del sangue uscì. Quando ebbe la meglio sul terzo ramo, presentatosi più robusto e quindi maggiormente resistente al taglio, una voce dalla radice implorò, perché lacerasse, senza pietà, quei rami. Lo invitò ad astenersi da qualsiasi azione violenta, e lo consigliò di allontanarsi al più presto da quella zona così amara. Alla fine, il ramo dichiarò di essere Polidoro, suo antico amico, figlio del re Priamo, che, essendo sotto assedio per mano greca, lo inviò presso l’amico re di Tracia, Polinestore, perché godesse della sua protezione. Qualora Troia fosse caduta, Priamo avrebbe desiderato che il Re fosse intervenuto, perché tutti i tesori cadessero nelle mani di Polidoro, che avrebbe così avuto la possibilità di riconquistare il regno perduto. Appena saputo della disfatta troiana, Polinestore ordinò l’uccisione di Polidoro, al fine d’impossessarsi del ricchissimo lascito.

Dante ne parlò nel XX° Canto del Purgatorio, dove pone sette antichi avari, biasimando l’avarizia: Pigmalione, fratello della regina Didone, che uccise il cognato Sicheo per taccagneria; Mida, che chiese al dio Bacco di trasformare tutto ciò che avesse toccato in oro; il folle Acan che rubò il bottino di Gerico; Anania, marito di Saffira, che ingannò San Pietro; Eliodoro, che spogliò il tempio di Salomone; ed infine Crasso, che ingoiò dell’oro ad opera dei Parti.

Enea, udita la crudeltà di Polinestore, partì per l’isola di Delfo, onde chiedere consiglio ad Apollo, in quale parte del mondo trovar pace.

Apollo del Belvedere (copia, Musei vaticani)
 Operato il rituale sacrificio, il Viandante chiese che l’oracolo vaticinasse. Immediatamente tutta la montagna cominciò a tremare e s’udì una voce, che consigliava di recarsi presso quella terra, dove avrebbero trovato l’antica madre. Ad Anchise balzò in mente subito l’isola di Creta, abitata dall’avo Dardano, figlio di Giove ed Elettra, quando Apollo aveva inteso l’Italia.

L’atto del discernere accompagna l’uomo in ogni atto della sua vita; il discernimento è quindi metodo indispensabile nel procedere verso la propria realizzazione. Per ciò, in questa fabula, Enea intende un luogo sbagliato, poiché l’uomo sia sempre attento e centrato nelle proprie scelte.

Il gruppo si mise in mare verso l’isola di Creta, dove Enea iniziò a fondare una città. Durante la notte, gli apparvero degli dei troiani, che lo consigliarono vivamente di abbandonare l’isola e raggiungere l’Italia, vera destinazione indicata dal dio Apollo nel vaticinio, da cui avrebbe dominato il mondo. Enea, svegliatosi di soprassalto, informò il babbo, Anchise, il quale, a tal proposito, si ricordò quanto Cassandra, figlia del re Priamo, profetava che prima o poi avrebbe abbandonato la Grecia, per trasferirsi in Italia.

Ricominciò il viaggio verso la giusta meta, che fu caratterizzato da un mare piuttosto tempestoso, quando passarono presso le isole Strofadi.

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,

che cacciar de le Strofade i Troiani

con tristo annunzio di futuro danno1

Furono sorpresi nell’osservare come gli armenti fossero senza custode, tanto da spingerli ad uccidere e sfamare così il seguito. Mentre i Troiani pasteggiavano, dall’alto delle montagne scesero in picchiata le arpie, che, dotate di artigli molti aguzzi, rapirono il cibo. Gli uomini imbracciarono le armi e riuscirono con fatica a disperderle. Una di esse si appollaiò su un albero e si rivolse ai Troiani, ricordando loro il motivo del viaggio verso la madre – terra Italia, che sarebbe stato caratterizzato da molte e durissime prove: avrebbero sperimentato la potenza dei venti contrari e la fame. Anchise, rimasto assai colpito dalle premonizioni, s’inginocchiò, pregando che quelle sciagure non avessero a colpire i già sfortunati viaggiatori.

Riprese il viaggio verso l’Epiro, dove regnava Eleno, figlio del re Priamo ed alla vista dei Troiani appena sbarcati, la regina Andromaca smarrì i sensi; quindi, rincuorata, confessò ad Enea ch’ella sapeva scomparso l’eroe troiano, che si rivolse ad Eleno, capace nella mantica, per avere spiegazioni sul suo viaggio avventuroso verso la madre – terra. Il vaticinatore non si sottrasse al suo compito e profetizzò che ancora molte sventure avrebbero reso disagevole il viaggio. Enea ed i suoi uomini avrebbero toccato le coste della Sicilia, quindi quelle africane, le contrade di Circe, fin quando avrebbero trovato riposo dopo aver toccato il suolo italico. Quindi la profezia si colorò di simboli: i Viaggiatori sarebbero entrati attraverso il corso di un fiume, dove avrebbero trovato una trota bianca con tre porcelli altrettanto bianchi, riparati sotto le querce. Essi avrebbero indicato il giusto luogo, per innalzare le mura di una nuova città, che avrebbe dominato nel tempo il mondo.

Enea allora ordinò ai suoi uomini di porsi nuovamente in mare, per raggiungere le coste della Sicilia, dinanzi alla città di Trapani, dove avrebbe trovato la pace eterna il vecchio Anchise.

Vedrassi l’avarizia e la viltate

Di quei che guarda l’isola del foco,

Ove Anchise finì la lunga etate2.

Enea, deciso a raggiungere l’Italia, si avventurò coi suoi uomini in mare, ma a causa dei venti contrari, conquistò le coste africane, nei pressi della città di Cartagine.

Virgilio (70 a. C. - 19 a. C.)
Virgilio nel primo libro dell’Eneide narra di Cartagine. Il re Belo, figlio di Agenore, ebbe un figlio, che chiamò Pigmalione, ed una figlia, Didone. Mentre al maschio affidò il regno; la femmina la affidò in sposa al ricchissimo Sicheo, re di Tiro. L’ingelosito ed ingolosito, Pigmalione si recò più volte in casa del cognato, ed un giorno, quando i due uomini si trovarono soli in tempio, lo uccise, al fine d’usurparne il regno ed imprigionare la sorella. La notte seguente, lo scomparso Sicheo apparve in sogno alla moglie, Didone, col petto squarciato dalle crudeli ferite, inferte da Pigmalione. La invitò a fuggire da Cartagine, portando con sé le ricchezze e soprattutto il corpo del marito defunto, perché trovasse altrove degna sepoltura. Didone ubbidì e si portò in mare, raggiungendo la Libia, dove il re Iarba, insospettitosi, non permise lo sbarco.
Andrea Sacchi - Didone

Didone assicurò il sovrano libico che il mare li avesse spinti presso quelle coste, ma la giustificazione non trovò soddisfazione in Iarba, al quale la regina chiese di acquistare un appezzamento. Ricevuto il denaro pattuito, Iarba col suo seguito si ritirò. Didone ordinò ai suoi uomini d’innalzare una fortificazione, che provocò l’immediata reazione del re libico, il quale si recò nuovamente da Didone seguito da gran parte del suo esercito, pronto a combattere. La regina, organizzata la difesa, incontrò Iarba, approfittando anche della sua avvenenza, cui l’uomo non si mostrò disinteressato, riuscì a frenare i propositi di guerra, raccogliendo garanzie di pace. Iarba allora le propose di sposarlo, ma Didone manifestò il suo cortese dissenso, dichiarandosi ancora legata da sacro giuramento al defunto marito, Sicheo. Quando avrebbe terminato la costruzione della città, allora si sarebbe unita a Iarba, portandogli in dote anche un importante e prezioso dono. Iarba, stoltamente, acconsentì. Virgilio racconta che nello scavare le fondamenta, fu trovata una selva molto lussureggiante con al centro la testa di un bovino, sicché un sacerdote consigliò nettamente d’interrompere i lavori, spostando la fondazione altrove, poiché quel capo indicava che presto la città sarebbe stata conquistata da truppe nemiche. Didone ordinò di scavare altrove. Fu trovata la testa di un cavallo e, stavolta il sacerdote diede la sua benedizione, essendo l’animale facilmente domabile dall’uomo, ma anche utilizzabile quale strumento di attacco contro i nemici. Fu quindi fondata Cartagine, erigendo un tempio dedicato a Giunone; quindi irrobustite le mura della città, continuò la costruzione di splendidi palazzi e grandissimi edifici.

Enea partì dalla Sicilia; appena sbarcato a Cartagine ordinò ai suoi uomini di non lasciar abbandonate le navi ed, accompagnate da Acate, si recò verso la città. Si realizzò la profezia di Virgilio, secondo cui i due uomini sarebbero stati investiti da una forte nebbia per causa di Venere; ciò permise loro di entrare tranquillamente in Cartagine, non visti.

 

 

 

(1) DANTE ALIGHIERI. La Divina Commedia, Inferno, Canto XIII; vv. 10 – 12

(2) DANTE ALIGHIERI. La Divina Commedia, Paradiso, Canto XIX; vv. 130 - 132

 

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